Il modello 3D in ecologia: dalle catene alla macchina fotografica
In ecologia, lo studio e la contemporanea tutela degli organismi a volte presentano delle difficoltà che necessitano di approcci nuovi: il modello 3D
Cercare di imparare qualcosa del mondo è sempre un processo che presenta aspetti discordanti. Talvolta uno di questi aspetti sono la protezione di alcune specie e l’uso di tecniche di osservazione che invece possono danneggiare gli organismi stessi che si vorrebbero tutelare. Per cercare di limitare questa contraddizione occorre trovare nuovi approcci, nuovi metodi ed anche, talvolta, accettare un limite posto alla possibilità di indagare. Uno di questi, in ecologia, è l’uso di un modello 3D.
Gli organismi biocostruttori
Uno degli ambiti marini su cui si sta concentrando la ricerca e lo studio, a livello globale, è quello riguardante gli organismi definiti come biocostruttori. Questi organismi possono essere animali, alghe o piante. Essi sono in grado, attraverso i loro cicli vitali e di crescita, di influenzare profondamente l’ambiente nel quale vivono. Le condizioni e la grandezza delle variabili chimico-fisiche presenti e la natura stessa del substrato cambiano radicalmente a causa della biocostruzione.
Un esempio familiare è certamente quello delle barriere coralline o del coralligeno mediterraneo. Anche la Posidonia oceanica, però, riesce con le sue radici a cambiare profondamente la morfologia di un luogo. Un recente studio, che propone una forma non invasiva di monitoraggio di questi organismi delicati ed allo stesso tempo poco conosciuti. Lo studio approfondisce il modo in cui cresce e sviluppa biocostruzioni costiere un piccolo verme polichete, Sabellaria alveolata. Questo verme è considerato il maggiore biocostruttore in Europa. Gli habitat che crea sono aggregati di biodiversità, per la loro ricchezza in specie differenti, e hanno un importante ruolo nella dinamica dei sedimenti. Anche per questo sono specificatamente tutelati nella Direttiva Habitat dal 1992.
Le metodologie distruttive
Gli studi condotti sulle scogliere o sui reef si svolgono solitamente in immersione. Per analizzare lo spessore della biocostruzione di S. alveolata, ad esempio, viene utilizzato un paletto centimetrato da far penetrare nella struttura biogenica. Per avere una stima dell’articolazione del fondale, invece, viene utilizzato il metodo della “catena e del nastro”: se per giungere dal punto A al punto B con una bindella metrica si misurano linearmente 10 metri, usando una catena pesante che striscia sul fondo si otterrà una misura diversa, maggiore. La differenza tra queste misure fornisce sì un’idea della complessità del fondale, ma lo distrugge anche a causa del trascinamento della catena e del rischio che si agganci in diversi punti, rompendoli. Infine, per calcolare volume e superficie di alcuni blocchi occorre rimuoverli, portarli in laboratorio, immergerli in acqua e ricoprirli di paraffina. Tutto ciò chiaramente distrugge la roccia ed uccide moltissimi organismi.
La fotografia ed il modello 3D in ecologia
Sulle barriere coralline già vengono usati diversi sistemi fotografici e di modellazione 3D per monitorare la scogliera. Per quel che riguarda le strutture create da questo verme, invece, sono stati sempre usati dati su ampia scala, per mezzo di fotografie aree o dati di risonanza acustica. A Marina di San Nicola, a sud di Ladispoli (RM), sono andati al dettaglio. Invece di concentrarsi su tutta la scogliera, per capire meglio le dinamiche della struttura (crescita, erosione) e per comprendere meglio gli effetti delle mareggiate, hanno ricostruito in 3D quattro singoli aggregati per quattro volte, a distanza di tre mesi, nel corso di un anno. Cosa non semplice, dato che per ogni punto occorrono tra le 80 e le 250 foto, da tutte le angolazioni e con una sovrapposizione ottimale dell’80%. Oltre che, ovviamente, diverse ore di postproduzione ed elaborazione 3D.
Le osservazioni dello studio
Una volta costruiti e confrontati i modelli è stato possibile trarne alcuni spunti. Per quel che riguarda i processi positivi, di costruzione, appare che nel periodo primaverile, estivo ed autunnale vi sia una crescita netta degli aggregati. Da un lato le larve si insediano e crescono, e dall’altro costruiscono i loro tubi con la la sabbia e i piccoli frammenti di conchiglie risospesi dalle condizioni marine favorevoli.
Durante l’inverno invece, anche a causa delle forti mareggiate, a prevalere sono i processi erosivi. Non a caso quando si parla di biocostruzione occorre tenere bene a mente una cosa. Ciò che vediamo è il frutto di due tendenze: l’accumulo e l’erosione di materiale.
Ciò che emerge da questo studio è che per comprendere gli effetti e le relazioni a livello ecologico occorre scendere fin nelle scale micro-spaziali. Per questo il modello 3D in ecologia offre delle interessanti potenzialità. Esso, ad esempio, permette perfino di contare quanti sono i tubi abitati e quanti quelli vuoti in diversi periodi dell’anno ed in seguito a diversi fenomeni. Utilizzare metodi non distruttivi è un inizio per poter monitorare ambienti delicati in cui anche solo il calpestio provocato dalla presenza umana può avere ricadute a cascata sulla stabilità del popolamento. Monitoraggi frequenti ed a diverse scale spaziali, quindi, possono permettere di incrociare diversi punti di vista sullo stesso luogo per coglierne al meglio fragilità e punti critici. Se poi anche il processo di osservazione non causa danni o problemi ulteriori, è già un buon punto di partenza.
Per approfondire: